Diario rimosso di Pavese: lodi al fascismo di Salò e al manifesto di Verona

27/8/2023

di MARCELLO VENEZIANI 31 Agosto
2020 In Cultura Panorama

Il 27 agosto del 1950 Cesare
Pavese si tolse la vita. Di lui
restò una biografia ufficiale e
una sommersa. La versione
canonica narra che fu scrittore
antifascista, mandato dal regime
al confino, importò il vento
della libertà traducendo
scrittori americani, si iscrisse
al Pci, lavorò all’egemonia
culturale della sinistra con
Einaudi. La versione negata
racconta invece che fu
intellettuale solitario,
disorganico, estraneo allo
storicismo marxista, censurato in
vita all’Einaudi e censurato post
mortem dagli intellettuali
organici del Pci per il suo
diario sconveniente, tenuto
nascosto per ben 40 anni.
“Politicamente sospetto” fu il
verdetto che Ernesto De Martino,
legato al Pci, emise in una
lettera a Giulio Einaudi a
quattro giorni dal suicidio di
Pavese. Per l’etnologo Pavese
aveva scritto “documenti assai
gravi” che mostravano la sua
“involuzione culturale”. La
polemica era già divampata su
“Cultura e realtà” e riguardava
la famosa collana viola di
Einaudi. Pavese voleva pubblicare
nella collana autori proibiti ed
era contrario a far precedere i
loro testi da “dieci pagine di
mani avanti e di proteste
antifasciste” come lui scrisse.
Aveva pubblicato i testi
“reazionari” di Dumezil e di
Kéreny, aveva chiesto i diritti
delle opere di Schmitt e Junger,
Il Tramonto dell’Occidente di
Spengler, I Proscritti di von
Salomon e La Grande Triade di
Guénon nella traduzione di Evola.
Il Pci faceva sentire il fiato
sul collo dell’Einaudi, tramite
Giolitti, Alicata e Muscetta.
Quando Pavese decise di
pubblicare Mircea Eliade, il Pci
tramite Ambrogio Donini
intervenne su Giolitti: “I
compagni rumeni ci segnalano che
presso Einaudi dovrebbero uscire
due libri dello scrittore
controrivoluzionario Mircea
Eliade…Sei al corrente della
cosa?” Pavese, informato a sua
volta da Giolitti rispose
“dovremmo smettere di pubblicare
le opere scientifiche di
Heisenberg perché questi è un
nazista?” e a De Martino scrisse:
“Che Eliade abbia fama di nazista
non ci deve spaventare”. Ma
l’orizzonte di Pavese divergeva
dall’Intellettuale Collettivo:
era il mito e non il materialismo
dialettico, era con Vico non con
Marx, era attratto dal mistero
del sacro e non dallo storicismo,
dalle langhe e non dalle
fabbriche, dalla magia
dell’infanzia passata e non
dall’avvento del comunismo
futuro; dialogava con gli dei non
con i leninisti. L’anno chiave in
cui si acuiscono i dissensi col
Pci è il ’48. Pavese scrive
pagine umane, troppo umane sui
morti fascisti ne La Casa in
collina: “Ho visto i morti
sconosciuti, i morti
repubblichini: sono questi che mi
hanno svegliato…anche vinto il
nemico è qualcuno, che dopo
averne sparso il sangue bisogna
placarlo, dare una voce a questo
sangue…al posto del morto
potremmo essere noi: non ci
sarebbe differenza, e se viviamo
lo dobbiamo al cadavere
imbrattato. Per questo ogni
guerra è una guerra civile: ogni
caduto somiglia a chi resta, e
gliene chiede ragione”. Pubblica
l’Antologia Einaudi, stroncata da
l’Unità perché estranea al
neorealismo marxista: troppa
America, troppo irrazionalismo;
accusa che, secondo il canone di
Lukàcs, equivaleva all’accusa di
fascismo. Augusto Monti lo trovò
dannunziano, Lucio Lombardo
Radice su la Rinascita
togliattiana paragonò Pavese e
Moravia allo scrittore
collaborazionista Drieu La
Rochelle, accusandoli di
decadentismo. Mario Alicata,
recensendo la luna e i falò, ne
denunciò l’ambiguità. L’Unità
stroncò La bella estate, ritenuta
troppo intimista e borghese.
Rinascita se la prese con il
saggio di Pavese in difesa del
mito, apparso su Cultura e
realtà, che costò al suo
direttore, Mario Motta, la
rottura col Pci: “Cosa può
significare sostenere che
ciascuno può sperare in un
paradiso soprannaturale, ma in un
paradiso terrestre no, se non
rovesciare la famosa direttiva
programmatica di Lenin sull’unità
di tutti i lavoratori per
costruirsi sulla terra un
avvenire migliore?”. Scomunicato.
Contro Pavese pure Lajolo,
Moravia… La giornalista de La
Stampa Bona Alterocca, biografa
di Pavese, raccontò di avergli
chiesto, scherzando, di essere
aiutata se i comunisti fossero
andati al potere. Pavese si fece
serio e rispose: “Se vanno su i
comunisti, verrò io a chiederle
di aiutarmi presso di loro” e
aggiunse che non aveva ricevuto
l’ultima tessera annuale del Pci,
né l’aveva sollecitata. La
solitudine lo aveva spinto verso
l’Intellettuale Collettivo, il
Pci, ma ne ricavò ulteriore
isolamento. Mandato al confino
per coprire una militante
comunista, Tina, di cui era
innamorato, Pavese chiese e
ottenne da Mussolini la grazia
dimostrando la sua estraneità
all’antifascismo. Marzio
Pinottini, dell’Università di
Torino, in un articolo su Il
Tempo narrò la strana storia di
Pavese “iscritto al partito
fascista della Rsi”. La sua
tessera, a suo dire, giaceva
negli archivi dell’Einaudi.
A 40 anni dal suicidio, nel 1990,
Lorenzo Mondo pubblicò su La
Stampa diretta da Paolo Mieli il
diario rimosso di Pavese ai tempi
della guerra. Qui Pavese
apprezzava il fascismo di Salò,
il manifesto fascista di Verona,
perfino il Blut und Boden nazista
e criticava aspramente
l’antifascismo. Già nel ‘52 Monti
scriveva preoccupato a Einaudi
“dovresti astenerti dal
pubblicare quel diario”. Dieci
anni dopo Mondo fece vedere i
taccuini inediti a Italo Calvino
che era organico al Pci. Questi,
nel racconto di Mondo,
“impallidì” e piombò in un lungo
silenzio. Poi suggerì di metterli
in cassaforte e non darli alle
stampe per evitare “le
speculazioni volgari che
avrebbero fatto”. Settant’anni
dopo è tempo di restituire Pavese
alla verità e la sua poesia al
mito.