Franca e Gabriella e la memoria del padre, GIUSEPPE SOLARO

30/4/2023

Franca e Gabriella Solaro e la
memoria del padre, Giuseppe,
barbaramente ucciso il 30 aprile
1945
-
L’esecuzione di un uomo
straordinario come Giuseppe
Solaro e le cose orribili che
accaddero sono l’emblema della
follia omicida partigiana.
Nessun processo, impiccagione
pubblica in un viale di Torino,
il cadavere portato in
processione per la città e,
infine, scaraventato nel Po.
Ricordiamo questa terribile
vicenda attraverso le parole di
Franca e Gabriella Solaro, figlie
del Federale di Torino impiccato,
a soli 31 anni, il 30 aprile del
1945:
-
Quando hanno ucciso mio padre,
racconta Franca, avevo 7 anni e
mezzo.
Ero una bambina attenta e
riflessiva.
Osservavo lo svolgersi dei fatti
con un certo timore.
Eravamo in guerra e chi può mai
dire chi vincerà?
Le esperienze forti di quel
periodo mi avevano reso precoce.
I bombardamenti su Torino, le
corse nei rifugi quando suonavano
le sirene, con la nonna che non
scendeva mai perché diceva di non
avere paura.
Lo sfollamento fuori città e,
nell’ultimissimo periodo, la vita
domestica al 1º piano della Casa
Littoria, a Palazzo Campana, in
Via Carlo Alberto.
Ci avevano trasferite lì per
ragioni di sicurezza, era, sì, la
nostra casa, ma anche caserma e
ufficio, quello di nostro padre.
L’ultima volta che ho visto il
babbo vivo è stato proprio lì,
quando ci ha congedate.
Ricordo la mamma in piedi davanti
a lui, con noi al fianco.
Papà era in divisa e ci ha
salutate. Un saluto molto breve:
“... devo partire per un viaggio,
dobbiamo separarci
temporaneamente”.
Volevo dirgli: “Salvati, perché
ci siamo noi!” ma con lui c’era
un altro ufficiale e
m’imbarazzava.
Papà si è chinato, ci ha dato un
bacio e tutto è finito.
Erano le 8 di mattina del 27
aprile del 1945.
Una camionetta della Federazione
ci aspettava per portarci in una
casa sicura, sempre in città.
La camionetta ci ha lasciato poco
prima dell’indirizzo, per non far
scoprire dove ci saremmo
nascoste, la mamma e noi due
bambine.
La strada era deserta...
È passata un’auto di gente armata
e con i fazzoletti rossi.
Dovevamo incontrare un uomo ma
non vedevamo nessuno. Allora
abbiamo attraversato ed eccolo di
fronte a noi con il giornale
sotto al braccio. Ci ha portato
in un alloggio a Corso Peschiera.
-
Io ero troppo piccola, dice
Gabriella, e il babbo non lo
ricordo. Del giorno della
partenza da Casa Littoria
rammento solo la mamma che ci
dice:
“... Franca, Gabriella,
sbrigatevi a vestirvi e venite da
me che vi faccio le trecce”.
Dalla strada salivano grandi
clamori e la voce della mamma non
era quella dolce di sempre.
Era una voce imperiosa, che non
ammetteva disubbidienze o
ritardi. Una voce che tradiva una
forte ansia e molta
preoccupazione.
Che cosa può aver provato, in
quei momenti terribili, una mamma
giovane, una bella signora di 35
anni?
Si chiamava Martina Magnani ed
era la moglie del Federale Fas_ta
di Torino.
Era sola, nella città in tumulto,
con le sue figlie per mano, senza
più una casa, senza un possibile
rifugio, senza molte speranze e
con la morte nel cuore.
Mi pare di ricordare il rumore
del portone di Corso Peschiera
che si richiudeva alle nostre
spalle, per noi quel portone era
la salvezza ma per nostra madre
rappresentò una separazione netta
tra la vita di prima e la nuova
esistenza che l’attendeva: un
portone chiuso, una vita
spezzata!
-
Riprende a parlare Franca.
Nell’alloggio di Corso Peschiera
siamo rimaste pochi giorni, senza
sentire la radio, né leggere i
giornali. Un pomeriggio sono
arrivati dei partigiani.
Cercavano i fas_ti, perquisivano
gli appartamenti piano dopo
piano.
Quel signore e la moglie ci hanno
ordinato: “...andate nell’ultima
stanza e mettetevi a letto,
diremo che c’è una nostra cognata
con le bambine ammalate”.
Ci siamo coricate vestite, con le
forbicine la mamma ci ha staccato
la “S” dalla cifra ricamata sulla
blusa, “SF”, Solaro Franca,
perché non corrispondeva al
cognome del signore che ci
ospitava.
I partigiani hanno bussato, lui
ha aperto e ha detto che aveva in
casa la cognata malata con “le
cite”, le bambine, anche loro
ammalate e i partigiani se ne
sono andati.
Chi era quel signore? Un uomo
sicuro, forse il papà di un
partigiano che il babbo aveva
aiutato.
Dopo qualche giorno è arrivato
don Giuseppe Garneri, il parroco
del Duomo che aveva assistito il
babbo nelle ultime ore di vita.
Lui ci ha portate all’Istituto
delle suore missionarie di
Valsalice, sulla collina di
Torino.
Siamo rimaste lì per un anno, ci
ho fatto pure la 3ª elementare,
con il mio vero nome: Franca
Solaro.
Anche Gabriella ha frequentato lì
la 1ª elementare, lei aveva solo
4 anni.
Vivevamo in una stanza,
ammonticchiate. La mamma faceva
da mangiare sul fornello o
elettrico.
-
La mamma ha saputo della fine di
papà dalla superiora
dell’Istituto, racconta Franca.
La suora, vestita di bianco, l’ha
presa per mano e l’ha portata
fuori dalla camera, su un prato
verde con le margheritine. Noi le
abbiamo seguite.
Si sono sedute sul prato.
Ha detto che il babbo non c’era
più.
Mi è sembrata un angelo per la
sua dolcezza eppure veniva a
darci una notizia tristissima.
La superiora non ha rivelato alla
mamma il modo in cui era stato
ucciso papà. La mamma l’avrà
saputo dopo, quasi subito credo.
Noi l’abbiamo di certo appreso da
lei.
Soltanto la mamma poteva dircelo.
A pronunciarla la parola
impiccagione faceva senso, era
orribile.
Noi due bambine avevamo molto
pudore nel rappresentarci la fine
di nostro padre, benché sapessimo
tutto.
Già il sapere era molto pesante.
Anche gli altri avevano ritegno
nel mostrarci le fotografie
dell’esecuzione.
Diciamo che certi particolari li
abbiamo scoperti da adulte, molto
adulte.
-
Non mi ricordo quando ho appreso
della morte del babbo, dice
Gabriella, però conosco bene le
conseguenze che la sua fine ha
avuto su di me.
Prima di tutto ho patito molto
l’assenza della figura paterna,
anche se la mamma è stata brava a
svolgere un doppio ruolo.
Tutta la mia vita è stata
sovrastata da un senso di
mancanza, di un’assenza, di una
lacerazione.
E poi quella morte crudele mi
costretta ad un’opera di
rimozione che, all’inizio, è
stata completa.
È normale no? Si va incontro alla
vita e si vuol essere felici.
In seguito l’onda dei ricordi
ritorna e arriva la
consapevolezza piena e dolorosa
di quell’orribile esecuzione.
-
Per me è stato il contrario, dice
Franca.
Quando ho saputo, mi sono detta
disperata: il babbo non lo vedrò
più!
Mi sono calata in pieno dentro
quella morte. Il mio carattere si
è velato di malinconia e ho
cominciato a tenere tutto dentro
di me.
Avevo sempre accanto la figura di
nostro padre.
Lo ammiravo per il suo
disinteresse personale, al punto
che non aveva neppure pensato al
“dopo” di sua moglie e delle sue
figlie.
L’ho anche mitizzato.
Mi dicevo: chi dopo di lui?
Nessuno!
-
Dopo la rimozione, aggiunge
Gabriella, quando ho cominciato a
ricordare, sono vissuta anche io
nel culto di mio padre.
Nel 1962 mi sono sposata.
Mio marito è un lettore onnivoro:
sapeva tutto del babbo, di
com’era vissuto e di com’era
stato ucciso.
Che vita ho fatto da adulta?
Grazie a tanti sacrifici, la
mamma è riuscita a portarci
entrambe al diploma di
ragioneria.
Con una borsa di studio sono poi
andata negli Stati Uniti, dove ho
frequentato l’ultimo anno della
High School.
Al mio ritorno in Italia, mi sono
iscritta all’Università Bocconi,
facoltà di Lingue e letteratura
straniere.
Sono arrivata alla laurea
lavorando, come aveva fatto
nostro padre che si era laureato
in Economia e commercio da
studente lavoratore.
In seguito, ho lavorato
all’estero, prima per FIAT e poi
per una grande Banca, l’Istituto
San Paolo di Torino.
Abbiamo una figlia, ormai adulta,
che è ballerina alla Scala.
-
Franca ancora ricorda la sua
infanzia.
Siamo vissute nell’Istituto di
Valsalice per un anno,
dall’aprile del 1945 al maggio
del 1946. Poi siamo passate a due
camere subaffittate sotto il
monte dei Cappuccini.
Non osavamo andare nella casa dei
nonni paterni, in Via Ornea: i
partigiani l’avevano invasa,
mettendola sottosopra.
Il nonno Solaro, un ferroviere,
che non era coinvolto nella
politica del figlio, era stato
epurato.
Viveva in ristrettezze materiali
e in una situazione precaria.
Noi stavamo accatastate nelle due
camerette, in attesa di trovare
qualcosa. Poi siamo passate ad
altri alloggi, una peregrinazione
continua.
In realtà siamo state senza casa
fino al 1951.
La mamma ci ha mantenute
lavorando, prima come segretaria
presso un sacerdote, poi come
impiegata in sue piccole aziende.
Infine, grazie all’interessamento
della segretaria del professor
Vittorio Valletta, presidente
della FIAT, come responsabile
dell’amministrazione in un ente
di ricerca.
Anch’io ho fatto l’impiegata,
sono ragioniera e mi sono
occupata di numerose di bilanci
in un’importante azienda
torinese.
Nostra madre era una donna
solida, pratica, con i piedi ben
piantati a terra.
Non pianse sul latte versato.
Non recriminò più di tanto.
Non ci insegnò ad odiare.
Si rimboccò le maniche per
trovare un lavoro, allevarci e
consentirci di studiare, con
grandi sacrifici ed economie.
Questo scopo divenne anche la sua
terapia.
-
Certo, dice Gabriella, nostro
padre è stato uno dei
protagonisti “della parte
sbagliata” ma i suoi erano valori
profondi: la nazione, la Patria,
l’onore, l’ordine, la giustizia
sociale.
Su questi valori era cresciuta
una generazione.
Aggiunge Franca.
Nostro padre era un dirigente
politico, ma anche uno studioso,
un economista, animatore del
Centro studi economici e sociali
del GUF di Torino, convinto
sostenitore della
socializzazione.
Era sensibile al benessere dei
lavoratori ed il quadro in cui si
muoveva era quello del
corporativismo.
Giuseppe Solaro era contro il
capitalismo ed ha dato la vita
per le sue idee.
Era un uomo serio, dice
Gabriella, molto impegnato nel
suo lavoro che riteneva una
missione.
Aspirava alla giustizia sociale
e, nell’ambito del programma di
socializzazione delle imprese, ha
tentato di instaurare un dialogo
con gli operai della FIAT,
rendendosi così inciso agli
industriali ed ai comunisti.
-
Lei ci chiede che cosa ha
significato per noi essere figlie
di Giuseppe Solaro, risponde
Franca.
Io non mi considero né fortunata
né sfortunata.
Nostro padre era una figura
carismatica e anche un uomo
coerente sono al sacrificio
estremo.
La sua idealità non l’ha smentita
mai ed è morto per questo.
È rimasto a Torino per
testimoniare un trapasso, quando
tutto era già caduto: perché c’è
un debito di fedeltà anche nella
sconfitta!
-
Conclude Gabriella.
La mia venerazione è per la sua
coerenza e la fedeltà alle
proprie idee fini all’ultimo
sacrificio.
È il primo lascito che ho
ricevuto da lui, insieme alla
simpatia per i perdenti.
Sempre Isaiah Berlin scrive che
gli idealisti “... trovano che il
fallimento sia più nobile del
successo, il quale ha qualcosa di
meschino, qualcosa di volgare”.
Il secondo lascito è la lezione
di vita, così fervida di opere e
densa di eventi: gli studi, il
lavoro, la famiglia, l’attività
giornalistica, la guerra di
Spagna, la guerra sul fronte
francese, la vita politica, la
tremenda responsabilità di quegli
ultimi due anni, dal 1943 al
1945, sotto il peso incombente di
una catastrofe.
Il terzo lascito è la sua
profonda aspirazione alla
giustizia sociale. Il senso di
fratellanza per la classe operaia
gli derivava non soltanto dalle
umili origini, ma anche dal suo
animo naturalmente proteso verso
un ideale di giustizia.
Non mi è mai pesato essere la
figlia di Giuseppe Solaro.
Anzi, ne sono orgogliosa.
Sono cresciuta e vissuta nel
culto della sua straordinaria
avventura terrena e della sua
orgogliosa sconfitta!
-
• tratto da “Sconosciuto 1945” di
Giampaolo Pansa
-
Appena un mese prima di morire,
Giuseppe Solaro scriveva:
-
La Patria, te lo diciamo noi, non
è quella dei tuoi padroni che ti
hanno dettato gli infami concetti
con una pistola alla nuca e un
sacchetto di monete.
La Patria è la nostra terra, non
devastata dai predoni anglo-
americani; è l’insieme delle
opere, delle città, delle
attrezzature civili, frutto del
sudore dei fratelli e degli avi,
non distrutte dagli assassini
dell’aria.
È l’insieme delle nostre
tradizioni, dei nostri contributi
dati in ogni epoca alla civiltà,
al progresso del mondo, non
misconosciuto e vilipeso dai musi
prognati dei mercenari di
Churchill.
La Patria è il complesso delle
nostre famiglie non gettate nei
lutti della discordia,
disseminata velenosamente nei
focolari dalle menzogne dei
nemici del nostro popolo.
La Patria è l’onore, per cui non
si tradisce, è la dignità, per
cui non si vende allo straniero,
è l’onestà, per cui si pensa da
galantuomini unicamente
all’interesse del popolo, è
l’amore della famiglia e la fede,
per cui si combatte con purezza
d’animo fino all’estremo
sacrificio.
Per questa ragione noi fascisti
ci identifichiamo con l’Italia,
noi soli combattiamo per la
giustizia
ed il benessere del popolo.
-
• dallo scritto di Giuseppe
Solaro dal titolo “Libelli
clandestini” pubblicato su “La
Riscossa”, il periodico della
federazione fascista repubblicana
torinese, il 29 marzo 1945.

• in foto Giuseppe Solaro insieme
alla moglie Martina “Tina”,
mentre distribuiscono pacchi
dono, in totale 8.000, ai bambini
torinesi durante la Befana
Fascista
nel gennaio del 1945.